Par DAVID BENHAÏM : « Genocidio y herencia traumatica en la obra de Janine Altounian »
16 mai, 2012Rencontre mars 2012 avec Janine Altounian : réflexion critique sur son oeuvre par l’atelier de recherche de l’EHESS, « Usages publics du passé »
27 mai, 2012Dal quotidiano « Il manifesto » del 3 gennaio 2008, col titolo « Appunti dal Grande Male degli Armeni » e il sommario « Il diario di Vahram Altounian pubblicato da Donzelli con uno scritto della figlia Janine, nella traduzione di Rossana Rossanda.
Marco Dotti e’ saggista e redattore di Stampa Alternativa.
Sottratto all’oblio per rendere comune ‘la vergogna’ del padre, questo testo elementare funziona come una sorta di mappa dell’esistenza, precisa nelle indicazioni geografiche e nei resoconti. Integra il volume un commento di Manuela Fraire ».
Vahram Altounian, nato a Bursa, in Turchia, nel 1915 viene deportato insieme alla famiglia; dopo aver perso il padre, e’ ospitato con la madre da un arabo e riesce a sopravvivere; nel 1921 si rifugia in Francia, dove vivra’ fino alla sua morte.
Janine Altounian, figlia di genitori armeni sopravvissuti al genocidio del 1915, prestigiosa intellettuale, studiosa di psicoanalisi e traduttrice, e’ responsabile della supervisione alla traduzione delle opere complete di Sigmund Freud in francese.
Il manoscritto e’ scarno, composto da note di viaggio o di spesa stilate con grafia irregolare, su trentaquattro pagine di un quaderno scolastico. Redatto in una variante del turco parlata dagli armeni vissuti nell’Anatolia centrale prima della fuga e dell’esilio subiti a partire dal 1915, il diario titolato Tutto quello che ho patito dal 1915 al 1919 di Vahram Altounian mantiene le caratteristiche della testimonianza orale con i suoi spazi vuoti, i suoi margini di silenzio e la sua assoluta convinzione che « l’indimenticabile », anche quando taciuto, esiste. Al di la’ del mero valore documentario, la struttura del racconto orale sottintesa dal diario di Altounian sembra funzionale tanto alla memorizzazione di eventi traumatici presso un pubblico composto idealmente da sopravvissuti, che dunque non hanno necessita’ di essere persuasi circa la veridicita’ dei fatti narrati, quanto alla costruzione di un ambito di comunicazione basato unicamente su accenni alla comune violenza subita. Lingua e struttura del testo – precisa Krikor Beledian, il linguista che per primo ne curo’ la traduzione su « Les Temps Modernes » – fanno d’altronde pensare che a scriverlo sia stato un giovane appena alfabetizzato e comunque ancora sprovvisto di qualsiasi strumento o malizia letteraria.
Uno sterminio pianificato
Quasi dovesse servire da mappa esistenziale, preciso com’e’ nelle indicazioni geografiche e nei resoconti, il diario di Vahram Altounian costituisce un eccezionale documento su cio’ che gli armeni definiscono il « Grande Male ». Con queste parole – « Metz Yeghern » – le comunita’ armene della diaspora nominano infatti la deportazione e il genocidio condotti contro il loro popolo dal governo dei Giovani Turchi, andato al potere dopo il crollo dell’Impero Ottomano.
Uno sterminio pianificato e silenzioso che non doveva lasciare testimoni e in qualche modo ambiva a portare a termine l’opera di persecuzione gia’ iniziata, sul finire del XIX secolo, dai funzionari dell’Impero con la complicita’ di bande di curdi. In un appunto al testo che l’editore Donzelli presenta ora al lettore italiano con il titolo Ricordare per dimenticare (pp. 96, euro 11,50) – accompagnandolo con il commento della figlia di Vahram, Janine Altounian e una preziosa riflessione di Manuela Fraire dedicata all’Oblio della madre – si ricorda che fra i metodi impiegati dalle autorita’ competenti per rendere « invisibile » la deportazione c’era quello di ammassare i deportati su convogli ferroviari tenuti a debita distanza da tutti i grossi centri abitati, per evitare di essere visti e ricordati. La pratica, che ricorda tristemente i « treni neri » nazisti, e’ indicativa della volonta’ di non lasciare tracce di se’, non inscriversi in alcuna memoria e negarsi persino come genocidio. A questo scopo, le forze dell’ordine addette alla deportazioni venivano reclutate fra irregolari, per lo piu’ malviventi comuni, e la morte quando non inflitta direttamente doveva essere « favorita con mezzi segreti », ossia con marce da un punto all’altro dell’Anatolia, marce estenuanti che miravano a sfiancare i profughi, presto falcidiati dagli stenti, dal tifo e dalla dissenteria.
Dopo il terrore
Vahram Altounian scrisse il suo diario nel 1921, probabilmente in seguito all’ondata emotiva seguita agli attentati che il quindici marzo e il sei dicembre di quell’anno, a Berlino e a Roma, costarono la vita all’ex ministro degli Interni turco Talat e al gran visir Said Halim; ma il quaderno rimase per molti anni chiuso in un cassetto confinato fra i segreti personali e di famiglia. Un documento da dimenticare, anche se mai dimenticato fino in fondo. Nel 1981 un commando dell’organizzazione « Alala » fece irruzione nel consolato turco di Parigi prendendo venticinque ostaggi, e fu solo allora che Janine Altounian trovo’ la forza per affrontare « la vergogna per me costituita dal dare alle stampe il diario di deportazione di mio padre ». Senza la disperata determinazione di quel gesto terroristico « che alcuni armeni vivi osavano scandalosamente ostentare – scrive ancora Altounian nella sua premessa – avrei vissuto quella decisione come una profanazione dei morti ». Nel suo scritto Terrore e oblio. La letteratura come mezzo per salvare la figura del padre, tradotto da Rossana Rossanda, Janine Altounian affronta quella « memoria bianca » e quell’oblio apparente che, nel passaggio delle generazioni, pur nel silenzio ha permesso la trasmissione di una forma di ricordo « inconscio della catastrofe ». Invertendo la prospettiva ricorrente che vede nell’oblio un atto mancato, Janine Altounian – psicoanalista e traduttrice francese delle opere di Freud – si propone di interrogare l’oblio del dramma armeno e quel senso di spavento e terrore che sorgono « a posteriori » e sono ben identificati dal termine « apres-coup » come atto perfettamente riuscito anche se, avverte l’autrice, « riuscito in extremis ». Non rimozione, quindi, ma oblio dove le memorie e i ricordi dei sopravvissuti non rimandano a uno spostamento da « una data area dell’inconscio a un’altra », ma « proprio al ‘non luogo’ del terrore, dal quale il soggetto si assenta per sopravvivere ».
Localizzare per rimuovere
Indice di questo atteggiamento e’ lo stesso clima di clandestinita’, determinato forse dal sentimento di essere sopravvissuti a qualcosa di indecente da cui preservare madri e figli, in cui nei loro racconti i protagonisti confinano l’esperienza del genocidio. Per Altounian si tratta quindi – ed e’ questo uno dei temi affrontati anche da Manuela Fraire nel suo interessante contributo al volume – di continuare il lavoro del padre, proprio la’ dove il padre si era fermato, per sottrarre la vergogna a uno spazio privato e riconsegnarla al mondo. In un percorso che va dalle riflessioni di Michel de Certeau sulla scrittura come rito capace di « esorcizzare la morte iscrivendola nel discorso », fino alle considerazioni sulla morte del padre raccolte nel Primo uomo da Albert Camus o sul suicidio della madre descritto da Peter Handke in Infelicita’ senza desideri, Janine Altounian affronta quell’inestricabile paradosso secondo cui soltanto cio’ che « e’ stato ‘localizzato’ da qualche parte nel mondo dei vivi puo’ essere rimosso ». Un paradosso tuttora presente nelle vicende e nei traumi degli armeni costretti a vivere in un mondo dove le coordinate della loro storia non sembrano esistere e, di conseguenza, anche il genocidio del 1915 non risulta « inscritto » in alcuno spazio della memoria occidentale. Localizzare e scrivere – suggerisce Altounian – sono allora le necessarie premesse per ricordare e, forse, persino per dimenticare.
Manuela Fraire, autorevole intellettuale, psicoanalista, una delle figure piu’ prestigiose del femminismo, e’ autrice di numerosi saggi.
Tra le opere di Manuela Fraire: (a cura di), Lessico politico delle donne: teorie del femminismo, Fondazione Elvira Badaracco, Franco Angeli, Milano 2002.
Rossana Rossanda e’ nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente del Pci (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista « Il Manifesto » su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure piu’ vive della cultura contemporanea, fondatrice del « Manifesto » (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu’ drammatica attualita’ e sui temi politici, culturali, morali piu’ urgenti.
Tra le opere di Rossana Rossanda: L’anno degli studenti, De Donato, Bari 1968; Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita’, Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996; La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e’ tuttora dispersa in articoli, saggi e interventi pubblicati in giornali e riviste.

